SEVEN SPIRES
“A fortress called home”
(Frontiers Music s.r.l.)
release date: 21 – 06- 2024
genere: symphonic power, extreme metal
voto: 4.5

Line up: Adrienne Cowan – vocals, Jack Kosto – guitar, Peter de Reyna - bass

Tracklist: A Fortress Called Home, Songs Upon Wine-Stained Tongues, Almosttown, Impossible Tower, Love’s Souvenir, Architect of Creation, Portrait of Us, Emerald Necklace, Where Sorrows Bear My Name, No Place for Us, House of Lies, The Old Hurt of Being Left Behind

Vorrei iniziare con un’affermazione del bassista Peter de Reyna: “Questo album ti costruirà e ti distruggerà (…). Non potrei essere più orgoglioso della vita che è stata creata in questo nostro quarto disco. Gioite nell'angoscia, crogiolatevi nella gloria, e vi vedremo dall'altra parte”. In vena di citazioni, ecco quella di Adrienne Cowan: “Ho visitato il vuoto due volte mentre scrivevo questo album. Non so quale abbia generato l'altro. È brutto. Lo adoro e lo odio, e penso che sia il nostro miglior lavoro.”, mentre il produttore Jack Kosto, che si è anche occupato del mixaggio, avvisa chi segue la band perché se solitamente i Seven Spires portano a percorrere un viaggio emotivo, in questo album portano l’ascoltatore e a confrontarsi con il viaggio che loro stessi vanno a crearsi. Le tracce sono tutte molto interessanti e in generale l’album si fa ascoltare molto bene, soprattutto, incuriosisce a ogni brano, stupendo con l’equilibrio di costruzione dei brani, oltre che con la sensibilità delle scelte. La band di amici di sempre, formatasi a Boston nel 2013, è conosciuta per i suoi album concettuali e soprattutto per la propensione a spingere i limiti del genere, infatti le influenze arrivano, tra gli altri, da tutto lo spettro del metal, raggiungendo voracemente il jazz, la musica orchestrale e l’influenza cinematografica che crea paesaggi sonori ambientali. “A fortress called home” chiarisce immediatamente che stiamo ascoltando musica di qualità, preparando sia all’atmosfera dell’intero album che dichiarando la qualità di questa band. È un brano orchestrale equilibrato che trasporta direttamente alla seconda traccia, caratterizzata dagli archi e dal growl, insieme ai cori che aggiungono pathos, successivamente entra una batteria prepotente insieme alla voce femminile in una sinfonia che cattura e incuriosisce, perché ci si chiede cosa seguirà. A tratti ricordando le sonorità o il tiro degli Avenged Sevenfold, le arpe, i violini e le tastiere, a tratti anche fiati come il flauto traverso, creano intermezzi assolutamente perfetti in quanto contrastanti con l’aggressività di chitarre e percussioni. La voce di Adrienne Cowan può essere tanto angelica quanto aggressiva, strizzando gli occhi a un modo di cantare tipico del punk rock/pop punk. C’è una maestria nella gestione dei tempi e della costruzione dei brani, che permette dei crescendo e climax nei momenti giusti, come anche i tempi dimezzati, piuttosto che i soli tipicamente metal (a volte heavy) e soprattutto i momenti di svuotamento sono sempre al punto giusto, a volte caratterizzati anche da rumori bianchi. Ci sono tracce più aggressive, come “Impossible tower” che inizia con un riff di chitarra dalle sonorità metal e un tempo leggermente più lento rispetto alle altre tracce, che rimane invariato praticamente per l’intero brano, attribuendogli così una solennità che l’intero brano porta con sé. Si arriva a un ritornello in cui la sonorità, indiscutibilmente Epic torna poi al riff iniziale in un continuo scambio di momenti emozionanti. La voce maschile domina il brano, indubbiamente, uno dei miei preferiti. Le influenze di generi diversi attraversano tutti i brani, come anche il tentativo di spingere al limite il genere principale. Come già detto, l’album è bello nella sua totalità, ma un’altra traccia da sottolineare è “No place for us”, caratterizzata da intermezzi di chitarra, orchestra e cori che aprono al ritornello cantato dalla voce femminile, insieme al growl, che si chiude con una sequenza di accordi tipicamente jazz che conducono al solo di chitarra melodico, per tornare al metal puro. Inoltre è da sottolineare il giro di basso, interessante in moltissime tracce, ma qui caratterizzato da uno slap persistente e coinvolgente che caratterizza il brano, principalmente nei momenti dei riff, introdotti da una batteria che rende chiaro che si sta pur sempre parlando di metal. Insomma, se non si fosse capito, è un album che vale la pena ascoltare, avere e perché no, regalare.

Vittoria Montesano

VISIONS OF ATLANTIS
“Pirate II - Armada”
(Napalm Records)
release date: 05 – 07 - 2024
genere: symphonic metal
voto: 3.5


Line up: Clémentine Delauney – vocals, Michele Guaitoli, vocals, Christian Douscha – guitars, Herbert Glos – bass, Thomas Caser - drums

Track list: To Those who choose to fight, The land of the Free, Monsters, Tonight I’m alive, Armada, The dead of the sea, Ashes to the sea, Hellfire, Collide, Magic of the night, Underwater, Where the sky and ocean blend


“To Those who choose to fight” è un piccolo intro che preannuncia alcune delle atmosfere che saranno poi presenti in molte altre tracce. È un tipico utilizzo della prima traccia per preparare l’ascoltatore e introdurlo nell’atmosfera dell’album. Entra sicuramente nella top 3 dei miei brani preferiti dei Visions of Atlas, band attivissima nei festival, ma che in realtà ha conquistato praticamente tutta l’Europa e anche l’America. La particolarità che li caratterizza fin dal loro esordio nel 2000 è la presenza di due voci, femminile e maschile, che si alternano continuamente all’interno dei brani. Indubbiamente piratesco, questo album è perfetto per chi ama Folk, Symphonic ed Epic Metal. Una sorta di parte 2 dell’album “Pirates” in cui la band fa tesoro di quanto appreso e sperimentato nel primo progetto per spingersi oltre con questa Armada e proseguire il viaggio nei mari. Dall’unione di questa strana ciurma italiana, austriaca e francese, ecco che nasce questa avventura interessante da ascoltare dall’inizio alla fine “Tonight I’m alive” può essere tranquillamente considerato il classico perfetto per chi ama il genere, seguito dall’interessante “The dead of the sea”, caratterizzata da un’atmosfera imponente, da un bellissimo inizio di brano e da parti strumentali che evidenziano l’impianto orchestrale e coristico. “Ashes to the sea” entra a gamba tesa con la sua vena romantica, caratterizzata dal glockenspiel, dall’ocean e dagli archi, oltre che da una melodia vocale dolcissima e dalla cornamusa, che avvicina il brano al Folk Metal, come succede anche per “Magic of the night”, in generale più interessante di “Ashes to the sea”, per via dei vuoti e dei crescendo vocali e strumentali che creano un’atmosfera sognante, di attesa e sospensione per riprendere con stacchi percussivi che vanno a incrementare di ritmo fino ad unirsi ai cori e agli altri strumenti, inoltre sono sempre bene accette le parti strumentali. Il finale è una carezza che prepara all’emotivo brano successivo. “Hellfire” è più aggressiva, soprattutto nei cori che fanno entrare nel vivo dell’atmosfera piratesca e si sommano alla batteria, mentre la voce principale è più lirica. Gli stacchi e le pause sono potenti e con le armonizzazioni cupe preparano ad un assolo di chitarra un po’ troppo heavy metal per il contesto generale, mentre dello stesso tenore è il solo di “Collide”, però perfetto per quest’ultimo pezzo che, nonostante non sia uno dei migliori dell’album, anzi, risulta a tratti monotono, è comunque ben strutturato ed eseguito. “Underwater” è indiscutibilmente il brano più delicato dell’album e strizza l’occhio ad una melodia vocale pop che punta a imprimersi nella mente, unita a momenti di armonie tipicamente metal e altri classic rock. Tornano le tastiere, gli archi e le cornamuse con un intermezzo che riporta sul sentiero principale tracciato sin dall’inizio dell’album. Indubbiamente interessante l’ultimo brano, tutto da scoprire, di cui non anticipo nulla, avendo già parlato praticamente di tutte le altre tracce. È sicuramente un pezzo che racchiude tutto ciò che è stato ascoltato finora con influenze vocali che a tratti possono prendere dal punk e in altri si avvicinano a un uso più lirico della modulazione. Gli intermezzi musicali meritano di essere menzionati, ma per non aggiungere altro, scrivo solo che è un finale perfetto oltre che, probabilmente, la mia traccia preferita. In generale crescendo, pathos sia strumentale che vocale, rendono questo album piacevolissimo da ascoltare, sia secondo l’ordine delle tracce che in riproduzione casuale. Sebbene personalmente io abbia le mie tracce predilette, credo che l’intero album sia valido.

Vittoria Montesano