Items filtered by date: Settembre 2020
Sabato, 12 Settembre 2020 00:38

VEGA “Grit your teeth”

 

 

Line up: Nick Workman – vocals, Tom Martin – bass, guitar, Marcus Thurston – guitars, James Martin – keyboards, Mikey Kew – guitars, Martin Hutchison - drums

Tracklist: Blind, (I don’t need) perfection, Grit your teeth, Man on a mission, Don’t fool yourself, Consequence of having a heart, This one’s for you, Battles ain’t a war, Save me from Myself, How we live, Done with me

Quello di cui sto per raccontarvi è il sesto disco dei Vega, ormai affermata band in ambito melodic Hard/AOR della scuderia Frontiers. Una band che vanta molteplici influenze e uno specifico apprezzamento a livello musicale e produttivo per i conterranei Def Leppard (con cui in passato hanno anche collaborato con ottimi esiti) e che qui si presenta con un nuovo episodio delle loro evoluzioni musicali decisamente interessante per la qualità proposta. Un disco che chiaramente propone uno stile che molto deve all’hard anni’80, e poggia su una solida struttura fatta di pathos, cori, e strutture ritmiche articolate basate sull’ottimo lavoro in fase di arrangiamento del duo alle sei corde Marcus Thurston/Michael Kew. Non mancano comunque, accanto ai classici anthem che molto devono al genere melodico (“Don’t fool yourself”) anche schemi più originali e complessi che forse risentono di qualche influenza più recente (la splendida “Man on a mission”). Su tutte le parti di cui il lavoro è composto devo dire che spicca assolutamente la linea vocale tenuta dal singer “Nick Workman”, che in ogni pezzo si ritaglia uno spazio di primo piano e detta con carisma, potenza e qualità espressiva il tono della canzone, alternando pathos (“Consequences”) a fasi più aggressive (l’opener “Blind”). In fase di produzione il disco è risultato assolutamente splendido a mio modo di vedere, come effettivamente si addice a una band che pone nel mirino il quintetto di Sheffield (i Def Leppard ovviamente!); i suoni sono ottimamente curati e si adattano assolutamente a ogni composizione, con i leggeri aggiustamenti necessari a sottolineare il passo epico/emozionale o quello più di impatto di ogni canzone. Infine, la struttura disco è ben bilanciata, tra riff e melodie unite a parti dove l’influsso hard/’eavy è maggiore. Si capisce comunque come l’attenzione della band si sia maggiormente fissata sul creare un lavoro emozionante e coinvolgente a livello interiore, e in questo senso è stato orientato il lavoro compositivo. Si tratta tuttavia di un impegno portato a termine con stile e originalità, sebbene ben rimanendo entro uno stile molto classico. Mi piace tuttavia notare come le parti più coinvolgenti e riuscite non risentano affatto di un eccesso di citazionismo e riescano invece a ritagliarsi una propria identità senza problemi; mi viene in mente l’interessante digressione melodica di “Battles ain’t a war”. Concludo affermando senza timore che si tratta di un ottimo lavoro che tutti gli appassionati di AOR come di classico Hard Rock ottantiamo. Il disco, in uscita nei giorni scorsi, voleva probabilmente portare a un tour live che per i noti fatti di questi giorni probabilmente ritarderà, ma per quanto sia necessario aspettare, consiglio a tutti di attendere. Buon ascolto.

Nikki

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Mercoledì, 09 Settembre 2020 00:59

VANDENBERG “2020”

 

 

Line up: Adrian Vandenberg – guitars, Ronnie Romero – vocals, Rudy Sarzo – bass, Brian Tichy – drums

Tracklist: Shadows of the Night, Freight Train, Hell and High Water, Let It Rain, Ride Like The Wind, Shout, Shitstorm, Light Up The Sky, Burning Heart – 2020, Skyfall

Ma guarda guarda cosa mi viene sottomano.....nientepopodimeno che il nuovo album di Mr. Vandenberg, il bravo guitar hero olandese in auge dal lontano 1982 con la sua omonima band, appunto, ma noto al pubblico a livello mondiale per il suo prezioso contributo al mitico “1987” degli Whitesnake ed al suo successore “Slip of The Tongue” per poi tornare in casa Coverdale nel 1997 e suonare nell'ottimo “Restless Heart”. Ma, ovviamente, il 66enne in questione è un artista, chitarrista, compositore, songwriter d'eccezione e ricordarlo “solo” per i Whitesnake è comunque limitativo. Mille collaborazioni ma c'è da valorizzare anche e soprattutto il suo esordio con la sua band, i Vandenberg, che partorirono tre album in studio tra il 1982 e l'85. Album eccezionali ai quali il nostro biondo axe man vuole tornare e quindi ha ben pensato di ricreare la sua creatura con una line up tutta nuova e di rispetto: Ronnie Romero (Rainbow, Coreleoni...) alle vocals, il grandissimo Rudy Sarzo (Ozzy Osbourne, Whitesnake, Quiet Riot) al basso e Brian Tichy (Slash, Ozzy Osbourne) on drums. Con tutto questo “spiegamento di forze” Adrian ha confezionato il nuovo disco dei Vandenberg esattamente dopo ben 35 anni!!! Veniamo al full lenght album e vediamo di che “pasta” è fatto. Indiscutibile la tecnica, la perizia e l'accuratezza dei musicisti come anche il granitico ma al contempo sempre melodico hard rock da sempre marchio di fabbrica dello stile di Adrian. Ci sono molte reminiscenze di Rainbow e Whitesnake e, soprattutto, dell'hard rock che ha spopolato lungo i mitici eighties. ' Shitstorm' è senza dubbio puro retaggio Whitesnake dall'arrangiamento alla voce di Romero che “scimmiotta” il grande Coverdale, viceversa fanno capolino i Rainbow nel cadenzato hard rock di 'Hell and High Water'. Un tagliente heavy rock caratterizza l'opener 'Shadows of the Night' ed ancora più pulsante è la seguente ' Freight Train' che faranno la gioia degli estimatori di quel tipico sound ottantiano. Interessante la riproposta 'Burning Rain' bellissima song presente nel debut album ed anche la conclusiva 'Skyfall' che parte lenta per svilupparsi su un heavy rock corposo ed energico. Da parte sua Adrian ci regala preziosi solos di chitarra ma senza strafare ed il lavoro d'insieme di questo “2020” è valido; unica pecca (che poi per molti potrebbe essere un valore....dipende dai punti di vista) è il suono che non ha beneficiato di alcun particolare arrangiamento moderno dando al prodotto un forte aspetto retrò, sembra infatti che il disco non sia stato partorito quest'anno, bensì interamente negli ottanta quando invece (e ve lo dice un fanatico degli eighties, nda) qualche accorgimento attuale avrebbe donato al disco più freschezza e vitalità. Gli stessi veterani Whitesnake, pur suonando la medesima musica da anni, hanno “modernizzato” il sound per renderlo più appetibile anche ai fans più giovani oppure nuovi ed eccellenti acts come gli Inglorious -dediti ad un sound a cavallo tra '70 e '80 – nei loro dischi hanno comunque il brio delle produzioni attuali. Ma questo starà a voi decidere se definirlo un bene o un male. Come conclusione posso solo dirvi che “2020” vale indubbiamente la vostra attenzione.

Roby Comanducci

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Lunedì, 07 Settembre 2020 01:14

BIFF BYFORD "School Of Hard Knocks”

 

 

Line up: Biff Byford – vocals, Fredrik Akesson (Opeth) – guitars, Christian Lundqvist – drums, Gus Macricostas – bass.
Guest musicians: Phil Campbell (Motorhead) – guita, Nick Barker (Cradle Of Filth, Dimmu Borgir) drums, Nibbs Carter (Saxon) – bass.

Tracklist: Welcome To The Show, School Of Hard Knocks, Inquisitor, The Pit And The Pendulum, Worlds Collide, Scarborough Fair, Pedal To The Metal, Hearts Of Steel, Throw Down The Sword, Me And You, Black And White

Inutile che vi parli di Biff. Lui fa parte del metal, è uno dei fautori della NWOBHM, ha scritto (insieme ad altri grandi del suo tempo) la storia del metal classico, quello senza influenze, il primo , vero, incontenibile ed incontaminabile suono del metallo pesante! Purtroppo è reduce da un periodo brutto, da un intervento che lo ha debilitato per mesi ma adesso torna ancor più frizzante di prima con questo primo disco da solista dopo circa 40 anni di carriera!!!! Il disco è molto introspettivo sia musicalmente ma soprattutto a livello di liriche poiché il nostro riflette su se stesso e sulla sua vita. Coadiuvato da eccellenti strumentisti che hanno contribuito non poco a dare il tocco 'moderno' ad un album che, inequivocabilmente, rimarca canoni stilistici degli eighties ma sorretto da una produzione attenta ed attuale. L'articolazione, la struttura metrica delle song proposte è abbastanza raffinata e non semplice, con passaggi articolati, cambi tempo, contro-tempi, insomma un gran bel da fare per i musicisti; se volete un esempio lampante di quanto ho appena scritto ascoltatevi subito 'The Pit And The Pendulum' coi suoi 7'15'' di durata, traccia dalle mille sfumature che farebbe invidia anche ai Dream Theater. Bellissima. Tra l'altro prima di questa song c'è un interludio di un minuto e mezzo con chitarra semi-acustica sul parlato di Biff; onestamente è toccante sentire la voce di questo vecchietto saggio che la sa lunga sulla vita e sui mille colori del mondo..... Poi ci sono momenti sognanti come la ballad molto folk oriented 'Scarborough Fair' che ci riporta alla mente antichi castelli medievaleggianti ed atmosfere simili. Viceversa se volete ricaricarvi di elettricità la successiva 'Pedal to the Metal' è pronta a farvi saltare sulla sedia. Nell'album trova posto anche una eccellente cover “Throw Down The Sword” dei Wishbone Ash, eseguita magistralmente. Il resto lo lascio scoprire a voi. Musicisti come Peter 'Biff' Byford sono un patrimonio dell'umanità.

Roby Comanducci

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Sabato, 05 Settembre 2020 01:12

FIREWIND “Firewind”

 

 

Line up: Gus G. - guitars, Herbie Langhans – vocals, Petros Christo – bass, Jo Nunez - drums

Tracklist: Welcome To The Empire, Devour, Rising Fire, Break Away, Orbitual Sunrise, Longing To Know You, Perfect Stranger, Overdrive, All My Life, Space Cowboy, Kill The Pain

Il qui presente quarantenne Kostas Karamitroudis conosciuto da tutti come Gus G. è un eccelso e funambolico axe man della sei corde proveniente dalla Grecia e con all'attivo tantissime collaborazioni, tra cui citerei quella con Ozzy durata dal 2009 al 2017, ma anche Arch Enemy, Dream Evil, Mystic Prophecy, Nightrage, quattro album solisti e ovviamente questo dei Firewind che lo reputerei il suo progetto padre. Coi Firewind il primo album risale al 2002 (prima aveva fatto un demo nel 1998) e in circa vent'anni eccolo ancora in auge con un'ulteriore line up (...eh si......nel corso degli anni ha continuamente cambiato elementi, nda), ed un full lenght album nuovo di zecca con, tanto per cambiare, un nuovo lead vocalist. Ma tantè, siamo qui per capire la qualità di questo omonimo disco e, ammettiamolo, di classe ce n'è in abbondanza come anche energia e grinta. Questo “Firewind” è un album di heavy metal di stampo 'neoclassico' di chiara matrice eighties ed il paragone principale è l'accostamento con i primi due album di sua maestà Yngwie Malmsteen e i suoi Rising Force. Il guitar sound del buon Gus infatti è molto Malmsteeniano, dalle scale al modo di strutturare le canzoni e certe partiture care al Re Svedese. Non arriviamo ai livelli di Yngwie ma il qui presente guitar hero ha molte frecce al suo arco ed è una piacevole scoperta anche per chi, magari, finora non lo conosceva per nulla o poco. Bella anche la prova del nuovo cantante Langhans che in quanto a potenza tiene botta per tutta la durata del disco e si amalgama bene al genere proposto dando carattere ad ogni song. Il disco è quindi un robusto heavy rock-metal e già dalla 'pomposa' opener 'Welcome to The Empire' capiamo di che pasta è fatto questo lavoro in studio. La seguente 'Devour' ci ricorda proprio i Rising Force e strizza l'occhiolino a Mr. man in black, Blackmore, se valutiamo attentamente il guitar work del nostro axe man. In linea di massima tutte le tracce sono degne di nota senza cali di tono e di stile; forse un pizzico di originalità in più non avrebbe fatto male ma essendo un disco indiscutibilmente guitar oriented (perchè diciamocelo, la struttura armonico/compositiva della ritmica e le vocals con i rispettivi arrangiamenti sono li a supportare l'estro di Gus!) glielo perdoniamo. Carina, anche senza gridare al miracolo, è la lenta ' Longing To Know You', mentre echi del mitico Ronnie James Dio del periodo solista li troviamo su 'Overdrive'. Potente e martellante è 'Perfect Stranger' ma, se proprio devo scegliere la mia “preferita” opto sicuramente per il velocissimo up tempo della bella 'Kill The Pain', quasi al limite dello speed con una carica di un treno in corsa. Quindi, carissimi, se siete alla ricerca di un onesto heavy rock album molto eighties style dove impera il virtuosismo di chitarra questo disco è per voi.

Roby Comanducci

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Venerdì, 04 Settembre 2020 01:18

DENNIS DE YOUNG “26 East – Volume 1”

 

 

Line up: Jim Peterik - guitar, bass, keyboard, vocals and vuvuzela, August Zadra - electric guitars, vocals, Jimmy Leahey - acoustic and electric guitars, Craig Carter - bass, vocals and invocations, Mighty Mike Morales - drums and all day sound checker, John Blasucci – keyboard, Mike Aquino - electric guitars, Kevin Chalfant - backing vocals, Matthew DeYoung - drums on “To The Good Old Days”, Ed Breckenfeld - drums on “Unbroken”, Zoe and Austin Orchard for Ring Around The Rosie, The Chicago Children’s Choir and conductor Josephine Lee, Dennis DeYoung - Keyboards, fake drums, fake bass, fake news and some vocals and Vuvuzela 

Tracklist: East of Midnight, With all due respect, A Kingdom ablaze, You my love, Run for the roses, Damn that dream, Unbroken, The promise of this land, To the good old days, A.D. 2020

 “26 East” era l’indirizzo di casa di Dennis giovane, e anche il luogo dove nel 1962 (!) fondò la band a cui deve la fama, gli Styx, e a cui ora indirettamente rende tributo dopo più di cinque decenni, fin dalla copertina (che invito a scoprire da voi). Giunto al settimo lavoro solista (in “soli” 36 anni …), e accompagnato da una lunghissima serie di strumentisti per i vari pezzi, quello che ci regala non fatico a definirlo un disco semplicemente splendido, in tutti i suoi punti di vista, passo quindi a descrivervelo senza altri giri di parole ...eh no, uno mi tocca: non trovate la lista completa degli strumentisti di questo disco proprio perché sarebbe stata più lunga della recensione stessa, e quindi per una volta non l’ho compilata…(hehehe vai tranqui ci ho pensato io, Roby). Eccoci quindi al punto, cosa troverete in questo disco? Niente di semplice da definire, se non hard/class/melodic rock di altissima qualità, scritto e interpretato con la passione di una band emergente, e al tempo stesso realizzato con tutta la classe che può permettere una così lunga carriera in ambito Hard rock. Il disco è una perfetta composizione di quanto ascoltato in questi lunghi anni, riproposto in maniera molto classica sia come suoni che come interpretazione, ma non per questo suona datato. Anzi devo dire che un buon lavoro di produzione non fa stonare una serie di song molto melodiche e orecchiabili che avrebbero potuto non stonare nel periodo d’oro tra fine anni ’70 e metà anni ’80, anche se registrate diversi decenni dopo. A livello musicale le influenze classic hard la fanno da padrone, con una serie di pezzi melodici caratterizzati da cori preponderanti e intensi, ma mai scontati, alternati da canzoni ove una certa attenzione per le contaminazioni musicali è maggiori; abbiamo così un momento funky con “With all due respect” e un momento con maggiore attenzione per l’epicità con la successiva “A Kingdom ablaze”, oltre ad altre divagazioni che troverete con piacere da voi. Il disco così procede, con certo una maggiore propensione alla melodicità, fino alla chicca finale, la splendida “To the good old days” dove Dennis duetta nientemeno che con Julian Lennon (e non è decisamente un’occasione perduta). Il disco è naturalmente ineccepibile dal punto di vista tecnico, sia come esecuzione che come realizzazione in studio, con ottimo suoni che esaltano le ritmiche e lasciano il giusto spazio sonoro all’interpretazione vocale. Le parti strumentali sono estremamente curate, ma prodotte in modo da non divenire mai forzatamente protagoniste del pezzo. Non mi va di aggiungere nulla se non che questo è un eccellente disco e tutti i fan degli Styx e di Dennis DeYoung lo troveranno un ottimo lavoro. E anche chi non lo è, che sia già un appassionato di Hard Rock melodico oppure vogliano sperimentare il genere: vi assicuro, ne vale la pena.

Nikki

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Giovedì, 03 Settembre 2020 01:07

RICHIE KOTZEN “50 For 50”

 

 

Line up: Written, arranged, produced, performer: Richie Kozten all guitars and vocals.

Tracklist:
CD 1: Stick the Knife, As You Are, Dogs, More Than This, Dirty Tricks, Nickel Hustler, Devil's Hand, Mad Bazaar, Turning the Table, Already Scarred (Live), Black Mark, Living the Dream,
When God Made You, Wait for Me, Life Gonna Give It to Ya, Innocuous.
CD 02: Radar, Freeze, Warrior, Pray for Me, Who I Am, Last Laugh, Taking on the Pain, Feather Weights, Going Back, Happy Here, Second Page,Circus Song, Trophy, So Fast, Deluxe, Lay It On, I Am the Clown.
CD 03: Play the Field, Wide Open, Dark Places, Miss My Girl, My Circles, Edge of the Earth, Mountains, Decree, Same Old Town, She’s the Man, Brother Brother, July 14th, Confession, Hide from Me, Let It Slide, Breaking Off, This House.

Parlare del buon Richie, ragazzo prodigio sin dalla tenera età ( sembra che a 7 anni abbia iniziato a strimpellare la sei corde) e della sua lunghissima carriera partita con l'aiuto del mamma-santissima dei chitarristi anni ottanta ovvero Mr. Mike Varney, produttore e scopritore/fautore della guitar hero-era tramite la sua etichetta Shrapnel Records, è veramente dura; dura nel senso che il nostro ha fatto talmente tante cose che ci vorrebbero 3 recensioni per esaudire le vostre curiosità. Ovviamente Richie è venuto alla ribalta a livello globale con la sua militanza in un album dei Poison e quando sostituì Paul Gilbert nei mitici Mr. Big. Poi i suoi dischi solisti sono stati esattamente 21 e quindi altre mille collaborazioni, Greg Howe, Vertù, The Winery Dogs ed ancora decine e decine tra apparizioni e compilation. Ad ogni modo, e su questo non si discute, la sua longevità e prolificità compositiva à direttamente proporzionale al genio e all'immenso talento che lo collocano (a mio modestissimo parere) nel gotha dei best 50 guitar players di tutti i tempi. La cosa strabiliante di questo cinquantenne è la capacità di passare dalla fusion al jazz, dal rock al blues rock, dal rock all'”hard” rock (hard tra virgolette poiché qui non si sfocia mai nel puro hard'n'heavy...) senza battere ciglio; senza contare le mille sfumature anche rhythm'n' blues, acid jazz, funky, pop, indie che ci vengono regalate di volta in volta nei suoi dischi. Il tutto sempre miscelato con maestria ed attenzione quasi maniacale al dettaglio. Per non parlare poi della sua ugola: eh si, il caro Kotzen è anche un ottimo singer, dotato di un timbro “nero” e leggermente rauco che si adatta benissimo soprattutto quando affronta tematiche hard/blues rock. Cosa ci combina quindi questo ragazzone giunto al suo 50° compleanno? Si/ci fa un regalo: compone, scrive, arrangia e produce un triplo album contenente nientepopodimeno che l'esatto numero di song equivalente i suoi anni, da qui appunto il titolo “50 For 50”. Progetto/disco pazzesco, pretenzioso e assurdo direte voi, invece no, nulla di tutto questo e, diciamocelo onestamente, non riesce nemmeno a stancare l'ascoltatore da tanto vasto e multiforme è il prodotto proposto con song stilisticamente diverse una dall'altra capaci di ancorare alla sedia qualsiasi fan della sei corde ma soprattutto qualsiasi fan della buona musica. E' invece un pò dura procedere ad un track by track.....ehm, la recensione sarebbe più lunga di un tema per l'esame di maturità hehe.... Però vorrei fare qualche precisazione. All'interno potrete ascoltare echi del grande Prince (ai tempi di Purple Rain), altri momenti compare il grande Glenn Hughes, poi divagazioni funky (parecchie) che miscelate ad un rock sopraffino tessono song da cardioplama. L'aspetto pop è altresì presente come anche quello fusion ed entrambi sanno ammaliarci come pochi altri artisti riescono. Poi, attenzione, il grande Richie sa sempre rockare, e sarete testimoni di ottime rock song, potenti hard blues/boogie e una serie infinita di tecnicismi, arrangiamenti articolati, solos da 'antologia' e, oltre tutto questo, un forte aspetto “fun” che il nostro inserisce in alcune canzoni che così funzionano come eroina pura, vi entrano in vena e vi obbligheranno a ballare. Come dicevo prima tre cd sono un'enormità di materiale; difficile giudicare ma credo che i primi due siano più “incisivi” mentre il terzo è leggermente più “soft” e non sto parlando come potenza o durezza, in album come questi, così complessi e articolati, si valuta l'insieme, la qualità, la resa sonora, l'eleganza della struttura musicale, il tecnicismo, il pathos. Posso solo darvi qualche accenno su pezzi che mi hanno letteralmente “stregato”; 'Stick the Knife' start iniziale con solos mostruoso ottima rock song, 'Dirty Tricks' eccelso e ammaliante funky rock con sezione fiati in evidenza, 'Mad Bazaar'che miscela pop e indie rock in modo sublime, la lunga (oltre sei minuti) 'Turning the Table' caratterizzata da fantastici passaggi fusion, ottima la sezione ritmica e guitar work, 'Innocuous' un lento intimista e ricco di pathos, 'Feather Weights' contenente un assolo stratosferico ed un guitar work rock/jazz/fusion da paura, 'Circus Song' fantastico pezzo strumentale, 'So Fast' song dal sound soft con un'interpretazione vocale da dieci e lode. Bene....direi che può bastare; un'idea ve la sarete fatta, adesso manca solo che vi procuriate il cd!!!! Grandissimo Richie!!!

Roby Comanducci

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Mercoledì, 02 Settembre 2020 01:05

MIKE TRAMP “Second Time Around”

 

 

 

Line up: Mike Tramp - vocal, electric & acoustic guitar, piano, Oliver Steffensen - lead guitar all songs, Claus Langeskov – bass, Morten Hellborn – drums, Soren Andersen - additional guitar, Jay Boe - hammond B-3, Marcus Nand -12 string acoustic guitar, 1st solo on “Back To You”, Emily Garriock Langeskov - backing vocals, Lars Rahbek Andresen - piano on “Highway”.

Tracklist: All Of My Life, The Road, Anymore, Come On, Between Good And Bad, Lay Down Your Guns, Highway, No Tomorrow, Back To You, When She Cries

Il bravo Mike Tramp, nel cuore di milioni di fans al mondo per i suoi trascorsi come ugola dei fantasmagorici White Lion, torna a distanza di poco dal predecessore al full lenght album solista e con questo sono 13 i solisti compreso anche quello live, più ovviamente quelli fatti con i Freak of Nature. Un album sicuramente da valutare con occhio differente poiché il nostro ci propina un lavoro altamente introspettivo nei testi (si rifà un pò alla sua vita e a esperienze e tematiche sociali) e assolutamente easy listening nelle musiche. Di 'hard' qui non c'è quasi nulla, il predominio lo hanno atmosfere leggere, ariose, semi-acustiche, ovattate, melanconiche (talvolta) tanto che per ascoltare una song più “dura” dobbiamo aspettare l'ottava traccia 'No Tomorrow'. Gradevole song senza però un vero mordente di base. In alcuni casi, prendete ad esempio 'The Road', sembra di ascoltare i REM; la classe non manca quindi, ma da lui mi aspettavo qulacosina in più sul versante hard. La sua voce e l'interpretazione che da alle sue composizioni è sempre di livello e questo è un punto a favore però alla fine il cd stanca. E' esageratamente soft, persino un album di Bryan Adams ci darebbe una scossa dieci volte superiore. Quindi cosa dire? Se siete in un momento particolare della vostra vita dove amate rilassarvi e stare con voi stessi l'eufonie di “Second Time Around” indubbiamente faranno al caso vostro, viceversa cercate adrenalina altrove.

Roby Comanducci

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Martedì, 01 Settembre 2020 00:58

AXEL RUDI PELL “Sign of the times”

 

 

Lne up: Axel Rudi Pell – guitars, Johnny Gioeli – vocals, Ferdy Doernberg – keyboards, Volker Krawczatz – bass, Bobby Rondinelli – drums

Tracklist: The black serenade (intro), Gunfire, Bad reputation, Sign of the times, The end of the line, As blind as a fool can be, Wings of the storm, Waiting for your call, Living in a dream, Into the fire

Ed eccoci a recensire il nuovo disco di Axel Rudi Pell, giunto in questa fase, si spera, finale della pandemia a darci testimonianza della nuova prova dell’axe man tedesco. “Sign of the times” ne è il titolo e la premessa essenziale alla recensione … è che stiamo sempre parlando di Axel Rudi Pell. Di un virtuoso musicista teutonico e in quanto tale votato al pragmatismo e alla direttezza dell’esecuzione, così come, meglio dirlo, un certo conservatorismo musicale che lo ha portato a non spostare mai troppo nelle molteplici uscite discografiche le coordinate del suo genere. Genere nel quale, lo si può dire, si è sempre mosso con poca variabilità stilistica, ma di cui comunque approvo la leggera correzione operata in questo 2020, vale a dire: molto molto continuiamo a prendere dal mitico power/hard 70s, tra Judas Priest, i Deep Purple più epici e i Whitesnake (a cui sembrano prese in toto le linee di tastiere della opener “Gunfire”) e, sebbene chiaramente il virtuosismo alla sei corde sia ampiamente sfruttato, meno manierismo e uso della tecnica debordante e fine a se stesso. Se avete un minimo letto tra le righe, avrete capito che ho decisamente apprezzato questo lavoro, pur non rappresentando affatto una particolare innovazione nella pluridecennale carriera del musicista di Bochum. Anzi … tuttavia, personalmente cerco sempre, anche oggi che sono un vecchietto, di svariare tra i generi musicali, quindi il tornare ogni tanto sull’epic degli ARP, devo dire, in realtà è un’ottima abitudine (sì, i più astuti di voi avranno completato la frase come “un’ottima abitudine da tenersi ogni due anni, cioè la cadenza dei dischi da studio della band, ininterrotta dal, ehm, 1998…). Ma parliamo finalmente di musica. A mio modo di vedere, in questa nuova opera brilla ottimamente di luce propria la linea vocale di Johnny Gioeli, sempre a proprio agio nelle varie song e in grado anzi di orientale (creando l’atteso, ed è ovvio, effetto simil “canto-controcanto” con le linee alla sei corde di Axel). Mi sento di dire che la resa tecnica delle altre parti è a sua volta perfetta come del resto ci si aspetta da musicisti di altissimo spessore e luna esperienza come quelli con cui abbiamo a che fare. Ed è secondo me azzeccata anche la produzione, che rende al meglio tutte le linee musicali con ottima chiarezza e rende le canzoni, nonostante lo stile estremamente classicista, perfettamente moderne e di impatto. Lo stile è come detto molto classico e sarebbe ingenuo non menzionare il “citazionismo” sempre presente nel disco. Il lavoro di Axel, come ho già detto, è eccellente nel creare ottime ritmiche e divagazioni soliste eccellenti, senza strafare. Insomma, come detto si tratta di un lavoro di grande qualità e realizzato con buone idee e molta cura nella struttura delle canzoni e direi anche nella forma disco, bilanciata e che dà un buon ritmo all’ascoltatore. Che dire ancora? Che sicuramente i fan di ARP non saranno delusi, si tratta per me di un’ottima aggiunta alla sua discografia. E’ un buon lavoro ben suonato e correttamente pensato, e se vogliamo a questo punto l’unica pecca può essere proprio l’eccessiva cerebralità e raziocinio con un cui un’opera di ingegno e inventiva viene realizzata. Ma tutto sommato, è un difetto? La risposta, io credo, dipende da ogni ascoltatore. Aggiungo solo: peccato per il corso funesto di questo anno in tema di concerti live: sarebbe comunque stata un’ottima esperienza poter rivedere questa band dal vivo.

Nikki

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